Sono sempre più convinto che per chiunque voglia occuparsi seriamente di “bollicine” e raccontare ai consumatori quanto sia variegato e assolutamente non riconducibile ad unità il panorama di questa particolare tipologia di vini, tra loro profondamente diversi, parlare di “spumanti” o di “spumante italiano” costituisca un assoluto non senso. Un modo di “comunicare” che prende fondamentalmente in giro il consumatore. Nel nome di un’idea disinvolta, non nobile e senza tradizioni, dello “spumante italiano” oggi si sta producendo di tutto, e si provano a proporre ai consumatori “spumanti” che non sono altro che meri prodotti di consumo, wine commodities, vini che, proprio come è accaduto con i rosati (quando abbiamo visto produttori di vini rossi super concentrati e potenti, al gusto di legno e di tostatura, “scoprire” improvvisamente, sulla via del business, le doti di eleganza, fragranza ed equilibrio dei rosati), non fanno altro che provare a cavalcare una moda. E così, puntualmente elogiati e oggetto di articoli da parte di testate che vivono di queste cose, di redazionali pubblicitari nemmeno ben mascherati, di comunicati aziendali spesso ripresi pari pari, nel nome dello “spumante” italico ecco apparire autentici “eno-mostri”. Vini dotati di caratteristiche che ben si attagliano alle attuali esigenze del mercato (ma non si sa bene di quali consumatori). Penso, ad esempio, ad uno “spumante”, come potete vedere qui , che in nome di non si sa quale logica enologica, gustativa, e tantomeno commerciale, riesce a mettere insieme una scarpa e una ciabatta, due uve che non hanno assolutamente nulla in comune tra loro come il Merlot ed il Pinot nero. La prima priva di qualsivoglia tradizione e attitudine seria alla spumantizzazione, la seconda base, laddove la si sappia interpretare bene e trattare con cura, di entusiasmanti bollicine. E così, per offrire un prodotto “fresco, fruttato e fragrante, di facile consumo”, ecco il “monstrum” rappresentato da un mix di un 70% di Merlot e di un 30% di Pinot nero provenienti dall’area delle Grave del Friuli, in versione Rosé, con i suoi bei nove grammi di zucchero tanto da renderlo morbidino e “ruffiano” quanto basa. Un sorta di “esperanto” enoico, una bollicina per tutte le stagioni, per tutti i gusti e tutti i piatti, visto che l’azienda produttrice ne consiglia indifferentemente l’abbinamento a “ preparazioni di pesce salsato o al cartoccio; tranci di pesce alla griglia, pesce spada e salmone, filetti di anguilla affumicati conditi con leggera “vinagrette” o aceto aromatizzato”. Ma anche “prosciutto dolce col melone”, e poi “carni fredde e in gelatina, risotti e tagliolini”. Ma senza dimenticare di proporcelo quale “ottimo vino da dessert a base di creme”. Insomma un vino, come qualcuno ha scritto, e senza alcuna ironia, da “tutto pasto, dall’aperitivo al dessert”. Se l’idea di “spumante” italiano che avanza, veicolato da prodotti simili, è questa, come non esserle risolutamente contrari, come non opporsi a bollicine nate dalla spumantizzazione (in questo caso Charmat) di qualsiasi uva, che abbia o meno vocazione ad essere trattata come base di un vino con le bollicine?