E’ normale che ogni giornalista che si occupa di vino abbia qualche predilezione per un determinato vino e una zona di produzione. Ed è giusto e comprensibile che magari quel vino e quella zona coincidano con la zona dove il giornalista risiede, la denominazione cui è più affezionato o tende maggiormente ad occuparsi, oppure con quei produttori e quelle denominazioni al quale quel giornalista è maggiormente legato. Non c’è assolutamente da scandalizzarsi se un giornalista campano tende ad esaltare i suoi Fiano d’Avellino, Greco di Tufo e Taurasi, che uno romano straveda e tenga costantemente d’occhio i suoi Frascati, e uno siciliano consideri Nero d’Avola e vini dell’Etna al centro del mondo. Normale anche che un giornalista piemontese abbia un occhio di riguardo, ne ha ben donde del resto, per i suoi vini base Nebbiolo, per i Barbera e persino per Arneis o Grignolino. Ma fino a che punto queste umane predilezioni, spesso assolutamente dichiarate e trasparenti, e senza nessuna ombra di conflitti d’interessi in atto, possono arrivare? Questo interrogativo mi è nato leggendo sul numero di giugno della rivista di un’associazione enoica un articolo dove un giornalista piemontese finiva con il parlare di Asti Spumante . Legittimo farlo, l’Asti è un prodotto universalmente conosciuto, eccellente, invidiatoci da tutto il mondo e persino dai francesi, che nella loro terra non possono contare su un vino così facile da bere e d’immediato approccio, ma fino a quale punto questo amore per il grande vino base Moscato Docg piemontese può giustificare determinate prese di posizione? Riflettendo sulla fortuna, interna ed internazionale soprattutto, dell’Asti il giornalista annotava: “mi chiedo come mai nessuno – ad esempio – si sia domandato chi può essere il consumatore di tute quelle bottiglie di Asti Spumante. E ancora, se sia mai stato chiesto perché in Germania lo bevano tranquillamente a tutto pasto mentre da noi è ancora una vergogna. C’è un problema di anchilosamento dei modelli di consumo? Credo di sì”. Bene, cosa si evince da questo scampolo di articolo? Non solo che il suo autore voglia un gran bene all’Asti e alla sua terra di produzione, ma che questo amore sconfinato, e legittimo, lo porti un po’ a “sbarellare”, ovvero a sostenere che quanto farebbero in Germania, ovvero bere Asti a tutto pasto, sia giusto, anzi costituisca un “modello di consumo” da imitare, mentre invece noi italiani che continuiamo a bere Asti a fine pasto con i dessert, e consideriamo l’idea di berlo “a tutto pasto” un po’ stravagante siamo troppo all’antica. E non sappiamo stare al passo dei tempi. Tempi che prevedono, ad esempio, che l’Asti si possa bere a tavola mentre si consumano i normali pasti quotidiani. Intendiamoci bene, lungi da me, che sono un teorico del primato dell’assoluta soggettività nell’apprezzamento dei vini, e che sostengo da una vita che i consumatori devono bere quel che piace loro, quello che gratifica il loro gusto e palato, e non quello che gli diciamo, noi comunicatori del vino, o compilatori di guide, o soloni ed “opinion leader”, di bere, proporre modelli di consumo rigidi e non aperti ad un pizzico di creatività. Ma, anche se un caro amico e produttore di valore come Romano Dogliotti , alias La Caudrina , mi ha fatto toccare con mano, una volta che ero visita in cantina da lui, come il suo ottimo Asti Docg La Selvatica , che definisce vino che “si sposa felicemente con le fragole, con le pesche ripiene all’amaretto, con le crostate e torte di nocciole”, andasse benone abbinato a lardo, salame e pancetta, riesce davvero difficile, se non secondo gli usi teutonici che ci ha magnificato ed invitato ad imitare il giornalista infervorato sostenitore dell’Asti, pensare di consumare l’Asti Spumante a tutto pasto. A meno che non si tratti di un’abbuffata di dolci e dessert, di frutta. Questo con tutto il doveroso rispetto per il suo entusiasmo e con tutti gli auguri possibili per successi ancora più grandi all’Asti e ai suoi produttori…