E dei vini presunti grandi le bottiglie restano semi piene…
Lo sanno anche coloro che non frequentano mai, e forse ciò giova alla loro salute mentale, i miei blog, che la Langa del Barolo è la terra del vino al mondo che più amo, dove ogni volta che vi faccio ritorno, e sono ormai 32 anni dalla prima visita, fatta al mitico “cunt” Paolo Cordero di Montezemolo all’ombra del cedro del Libano dell’Annunziata d’la Mura, il mio cuore subisce un soprassalto emotivo unico e imparagonabile a quello che mi danno altre zone vinicole che pur amo profondamente. Parlo della Champagne, della Vallée d’Aoste, della Bourgogne, dell’Alto Adige – Süd Tirol, del Salento, della Toscana di Montalcino e, del Cirotano in Calabria e, me ne stavo dimenticando, della Franciacorta.
Tornare in Langa e soprattutto aggirarmi, come ho fatto per sei lunghi, intensissimi, meravigliosi giorni, tra Alba e Verduno, tra Barolo, Castiglione Falletto, Monforte d’Alba e Serralunga d’Alba, tra Treiso e Barbaresco, spingendomi sino a Vergne e La Morra, godendo lo splendore della conca d’oro vitata di Novello (bella nonostante vi abbia abitazione un personaggio che disprezzo ), è stato vivificante e mi ha offerto mille occasioni di riflessione. E di post che vi “sbolognerò”, preparatevi, sui due blog.
Quando vengo in Langa ci sono visite ad alcuni produttori che sono di prammatica, perché prima che produttori sono veri amici, di quelli che non tradiscono, che non ti tirano coltellate alle spalle, che non ti raccontano ridicole balle spaziali pensando che tu sia tanto pirla da bertele, e una di queste è sempre dall’amico, da quanti anni?, Fabio Alessandria , anni 41 beato lui, ma purtroppo gobbo malefico , ovvero rubentino .
Fabio Alessandria è oggi, con la presenza sempre vigile dei genitori ed il conforto della moglie, splendide persone, il pilastro di un’azienda di stile tradizionale come piace a me, ovvero la storica Comm. G.B. Burlotto , sita in quella Verduno sulla quale da anni cerco di attirare le attenzioni dei più attenti. Non solo perché è culla dell’intrigante e, dicono, afrodisiaco Pelaverga , ma perché facendo parte dell’area di produzione del Barolo ha al suo interno cru (o M.G.A.) di assoluta magnificenza, tipo Massara, Neirane, Pisapola, San Lorenzo, per non citare che il re, il Monvigliero . Cru da cui nascono Barolo di un’eleganza, di una suadenza aromatica, di una bellezza che mi fanno letteralmente andare in brodo di giuggiole.
Ma che c’azzecca il pur grandissimo Barolo, caro al cor di Ziliani, in un blog delle bollicine? C’entra eccome, perché quando vengo a trovare Fabio, che produce anche un rosato del mio privilegio, l’Elatis (purtroppo nel 2014 l’ha saltato), è antica consuetudine che dopo la degustazione dei suoi magnifici vini in cantina o nella cappelletta sconsacrata si vada a cena insieme e si beva una bella bottiglia di bollicine come si devono. Qualche volta sono bottiglie che porto io, altre volte le porta Fabio, oppure le scegliamo nella fornitissima carta del “ristorante di casa”, l’ottimo Falstaff che dista dalla cantina 500 metri e ancora meno dall’eccellente agriturismo La locanda dell’orso bevitore , gestito dalla sorella, architetto, di Fabio.
Questa volta, in occasione della visita che avevo fissato da tempo per mercoledì sera, ignorando che fosse la serata della partita di ritorno (o la va o la spacca) di Champions League tra il Real Madrid ed una squadretta, come si chiama?, di Torino, specialista in scudetti rubati, sono tornato a Verduno non da solo, ma accompagnato da due colleghi e amici fraterni, lo spagnolo e madrileno Juancho Asenjo , uno al quale il mondo italiano, se non fosse spesso distratto e ingrato, dovrebbe elevare un monumento per quanto ha fatto per la diffusione della cultura del vino italiano di qualità in Spagna, ed il polacco, mio coetaneo, Marek Bieńczyk , romanziere, saggista, traduttore in polacco di Kundera, Barthes, Cioran, nonché raffinato conoscitore di vini, cui si avvicina con la sensibilità di un raffinato intellettuale e filosofo.
Bene, sapendo che questa volta avrei avuto questo parterre de rois di commensali, quale bottiglia di bollicine avevo portato da casa? Inizialmente avevo pensato ad uno Champagne , ma poi, un po’ per il mio sempiterno attaccamento ai colori del e della Franciacorta , un po’ perché avevo letto che qualcuno l’aveva definita, con molta fantasia, “la Champagne italiana ”, un po’ ancora perché avevo appreso che in una degustazione – confronto non ufficiale ma ufficiosa o chissà come definirla, che si era tenuta, ovviamente all’insaputa del Consorzio Franciacorta e dei suoi responsabili, nel corso dell’ultimo Vinitaly, alcuni Franciacorta erano andati alla grandissima, ho pensato che Franciacorta dovesse essere.
E non un Franciacorta qualsiasi, ma una “cuvée de prestige ”, una di quelle bottiglie che dovrebbero fare notizia, non per il suo prezzo da Circo Togni, più caro di un vino autenticamente spaziale come il fantasmagorico Brut Nature 2006 di Roederer (ne scriverò prestissimo), bensì per il suo valore intrinseco, perché, dicono, rappresenterebbe la tenace ricerca di una perfetta armonia.
Bene, non mi sono fatto mancare nulla, packaging flamboyant , annata importante, presentazione da vino leggendario, librettino di spiegazione plurilingue compreso russo e giapponese, e allora arrivati a tavola, prima che cominciassero le danze dei Barolo – io dalla cantina mi ero comunque portato una mezza bottiglia dell’amato Langhe Freisa per non rimanere in crisi di astinenza da tannini – abbiamo proceduto, o meglio l’ha fatto il patron del Falstaff , lui stesso incuriosito da tanto teorico splendore, dalla presenza nel suo locale di una bottiglia teoricamente da leggenda, all’apertura con tutti i crismi del “mega Franciacorta”.
Tappo perfetto, bicchieri ampi all’altezza della situazione, ma non appena abbiamo portato al naso i calici, sulla sala è calato un silenzio più gelido di un iceberg. Cosa stava succedendo? Niente di speciale, semplicemente che l’atteso capolavoro, che la cuvée de prestige de noantri lombardi , che l’ipotetico vanto della Franciacorta tutta, in grado di spezzare le reni a quei provinciali di francesi, si stava rivelando un vino muto. Un vino che non ci trasmetteva nulla (a me invece un furibondo giramento di palle…), se non il ritratto della sua sconfinata presunzione, del preteso volersi mostrare grande per rivelarsi però, alla prova dei fatti, piccolo, impotente, insomma un vorrei ma non posso bollicinaro .
Materia nel bicchiere ce n’era, con quella cuvée composta per il 45% da Pinot nero (inutile precisarlo, di coltivazione e provenienza esclusivamente franciacortina , come da disciplinare , magari fosse arrivato, come è tassativamente, filosoficamente e deontologicamente proibito, dall’Oltrepò Pavese, dall’Alto Adige o, magari!, dalla Montagne de Reims ), ma trattavasi di una materia inerte, pesante, che non riusciva a spiccare il volo , tanto il vino era ancorato al suolo da una quantità di legno, di vaniglia, da un dosaggio e da una liqueur, da un dichiarato tentativo di mostrare i muscoli , che gl’impediva letteralmente di avere e sciorinare quelle doti che spiccano in un metodo classico davvero grande, ovvero eleganza, croccantezza della bolla, verticalità, leggerezza e freschezza. Grasso era grasso, certo, ma della grassezza degli obesi, ai quali non chiederesti mai di cimentarsi in un leggiadro pas de deux , tanto risulterebbe prevedibilmente goffa la sua grottesca performance.
Un Franciacorta che rivelava chiaramente come la fermentazione fosse stata effettuata parzialmente in botti di legno e con affinamento sui lieviti prolungato per diversi anni, ma un Franciacorta per i quale sia il sottoscritto che Fabio Alessandria che il proprietario del Falstaff abbiamo trovato la definizione perfetta che ci è stato difficile tradurre in spagnolo ed in polacco (con l’aiuto del francese che Marek parla alla perfezione) ma che in lombardo ed italiano recita “gnucco ”, ovvero pesante, fiacco, monotono, monodimensionale, senza eleganza e un po’ grossolano-volgarotto.
Un Franciacorta che aspirava ad essere grande ma che invece alla prova del bicchiere si rivelava un po’ patetico, tanto che in cinque non riuscimmo a finire la bottiglia, che rimase malinconicamente piena a metà sul tavolo. Dove finirono regolarmente vuotate le bottiglie di Langhe Freisa e di Barolo Monvigliero , annate 2011 e 2001, e di Barolo Acclivi di Fabio.
Quale morale trarre da questa storia? Semplice: che io sono stato un pirla nello scegliere il Franciacorta da proporre come campione bollicinaro, non dico in funzione anti-Champagne, alternativo o addirittura superiore all’inimitabile modello francese, non sono tanto stupido da pensare una sciocchezza del genere, della serata.
Non farò il nome dello sfortunato e goffo “cigno nero” che ho maldestramente scelto, posso dire senza tema di smentita che avrei fatto figura infinitamente migliore con i miei amici puntando su una qualsiasi bolla di Cavalleri , per me il punto di riferimento assoluto franciacortino, sul sorprendente Brut Nature di Facchetti , sull’Extra Brut di Barboglio de Gaioncelli , sulla riserva Pas Dosé QDE del Mosnel , sul Dosaggio zero 2010 di Corte Fusia , sul Blanc de Noir riserva 2007 di Monzio Compagnoni , sui magnifici, ché per me rimarranno sempre tali, splendenti, puri, autentici come la vera amicizia, Vintage Collection Dosage Zero , Brut e Satèn di Cà del Bosco , o come il sensazionale, mais oui , l’ho decantato lo scorso ottobre anche in Francia, Vintage Collection Dosage Zéro Noir, o la Cuvée Anna Maria Clementi di quella che io continuo a considerare la Maison numero uno di Franciacorta. Cui concedo che produca e venda, a 17 euro più Iva, senza scontistica, alla ristorazione, nella GDO lo troviamo intorno ai 24 euro, un milione e mezzo di pezzi di quella Cuvée Prestige che a me non dice più di tanto, ma di cui rispetto la logica commerciale.
Avrei potuto cascare meglio quella sera, scegliendo tra le tante belle cose prodotte, senza voler per forza fare gli “sboroni”, da Enrico Gatti, Giuseppe Vezzoli, Colline della Stella, Fratelli Berlucchi, Camossi, Elisabetta Abrami, Bosio, Colline della Stella, Castello Bonomi, Uberti, Quadra, Derbusco Cives, Faccoli, La Boscaiola, San Cristoforo, Monte Rossa, Villa, per citare i primi nomi che mi vengono in mente.
Ho scelto invece un Franciacorta che vorrebbe, nonostante la mia sommessa preghiera agli amici franciacortini espressa lo scorso ottobre su questo blog che ormai una parte di Franciacorta mal sopporta (perché racconta quello che vede e non fa sconti a nessuno e rifiuta di credere alle fiabe e ricorda che non tutto va bene madama la marchesa e che non di solo Expo vive l’uomo…) “fare a botte” con lo Champagne. Ma così facendo a uscirne con le ossa rotte é solo lui, rivelando la propria natura provinciale, la carenza di eleganza, che è un dono naturale, é innata, o la si ha, o non la si può comprare. Anche se si hanno tanti soldi… La perfetta armonia non la si costruisce, la si ha dentro…
________________________________________________________________________
Attenzione!: non dimenticate di leggere anche Vino al vino www.vinoalvino.org e il Cucchiaio d’argento !